L’approvazione della legge delega di riforma della magistratura onoraria e di pace avvia un processo di “rimodellamento” delle figure del vice procuratore onorario, del giudice onorario di tribunale e del giudice di pace (queste ultime ricomprese in un’unica figura di magistrato giudicante ridenominata “giudice onorario di pace”) che, come si comprende leggendo con attenzione l’articolo 2, comma 17, inerente la normativa transitoria, durerà 4 anni e, salve altamente probabili modifiche “in corso d’opera” (in 25 anni di esperienza professionale non ho mai visto una riforma rimanere immutata), dovrà essere attuata con più decreti legislativi, in parte già integralmente scritti, in parte rimessi all’ampia discrezionalità del Governo.
Ovviamente, quando passa una legge di riforma di tale portata, che rivoluziona l’assetto normativo vigente, le preoccupazioni sono tante e tendono a prevalere ed offuscare un giudizio obiettivo sul testo: in tal senso, parlando con i colleghi, non ho potuto non notare come, in alcuni casi, la conoscenza dei contenuti della legge sia approssimativa, spesso limitata alle due disposizioni principali sulle quali, ovviamente, abbiamo concentrato le nostre attività sindacali, ossia la continuità ed il trattamento economico e previdenziale.
E’ normale, in un rapporto di lavoro, che la durata dell’incarico, i compensi e le tutele previdenziali assumano un ruolo cardine sul quale non possono non convogliare gli interessi della categoria e delle organizzazioni che la rappresentano, ma avere un quadro completo della legge senz’altro aiuta a comprenderne il significato e ad elaborare le migliori strategie di tutela dei nostri diritti.
In questa prima parte mi occuperò degli aspetti più strettamente connessi alle nostre rivendicazioni sindacali ed alla nostra condizione giuridica come lavoratori.
Nella seconda parte, che mi riprometto di scrivere il fine settimana, mi occuperò degli aspetti ordinamentali della legge (procedure di conferma; responsabilità disciplinare; organizzazione degli uffici; etc…), altrettanto importanti e colpevolmente trascurati da alcuni o esaminati con sufficienza o, peggio, supponenza.
1. CONTINUITA’ DEL RAPPORTO.
E’ sempre stata la rivendicazione cardine della categoria ed ancora ricordo le parole di decine di colleghi che mi dicevano: chiediamo solo quello.
Una riforma, che, peraltro, ai sensi dell’articolo 245 del d.lgs. n. 51/1998, deve ricomprendere tutte le figure di magistrati onorari ordinari previste dall’ordinamento giudiziario, non può ovviamente trattare solo l’aspetto della durata dell’incarico.
Oggi ne siamo tutti consapevoli, ma nel passato, l’avere a volte trascurato altri aspetti altrettanto rilevanti dell’emananda riforma, di sicuro non ha giovato alla nostra credibilità presso gli interlocutori politici ed istituzionali.
La riforma, sotto tale profilo, prevede quattro mandati quadriennali per tutti i magistrati onorari in servizio (articolo 2, comma 17, lett. a), numero 2) e stabilisce un limite di età sino a 68 anni (articolo 2, comma 17, lett. a), numero 4).
Sicuramente 16 anni sono tanti e la disposizione non può non essere accolta con favore dai colleghi più giovani: quando siamo entrati avevamo aspettative di durata del rapporto rispettivamente di 8 anni (i giudici di pace) e di 6 anni (gli altri magistrati onorari); molti di noi sono rimasti in servizio per 20 anni, e quasi tutti noi giudici di pace abbiamo superato i 12 anni di servizio.
Una norma che ci garantisce la permanenza in servizio per 16 anni (salve, ovviamente, le valutazioni di idoneità in sede di conferme quadriennali delle quali tratterò nella seconda parte) ci consente di programmare il futuro con molta più serenità di ieri l’altro, allorquando eravamo (e tuttora lo siamo, non dimentichiamocelo) in proroga con lo “spettro” della riapertura dei concorsi, che avrebbe determinato un ricambio completo nel giro di un anno in conseguenza della previsione contenuta nell’articolo 4 della l. 374/1991 che ammette al tirocinio un numero di candidati pari al doppio dei posti messi a concorso.
In parole povere: se le nostre scoperture di organico sono pari a 2.000 unità, considerando che i concorsi previsti nell’articolo 4 della nostra legge istitutiva (e successive modifiche) sono distrettuali e molto rapidi – in Abruzzo, ad esempio, avevano esaurito le procedure concorsuali ed i tirocini in meno di un anno dal bando -, si sarebbe arrivati nel giro di un anno a 4.000 aspiranti giudici di pace che, avendo già superato positivamente il tirocinio, sarebbero stati pronti ad essere immessi immediatamente in servizio; davvero qualcuno poteva razionalmente credere, in una simile situazione, che ci sarebbe poi stato spazio per ulteriori proroghe?
Avere 16 anni, in un Paese in cui nessuna legge resta immutata per sempre, vuol dire avere la garanzia della continuità sino al limite di età.
L’aspetto negativo, in tal senso, è senz’altro costituito proprio dal limite di età fissato a 68 anni.
Nelle professioni intellettuali, ormai, nessuno riesce più a raggiungere l’età pensionabile prima dei 70 anni e, nel futuro, con l’allungamento delle aspettative di vita media, tale limite non potrà che slittare in avanti.
Per tale motivo è fondamentale, in questo momento, rivendicare con forza l’innalzamento del limite di età a 70 anni nel regime transitorio, innalzamento che potremmo riuscire ad ottenere anche in sede di conversione dell’imminente decreto legge che ci prorogherà nelle funzioni sino al completamento delle procedure per la prima conferma quadriennale previste dell’articolo 2, commi 7, lett. b) e c) e 17, lett. a).
2. TRATTAMENTO ECONOMICO
Inutile nascondersi, si tratta dell’aspetto più preoccupante della legge delega, che contiene una norma in bianco (articolo 2, comma 13) che delega completamente al Governo la determinazione dei nostri compensi, sia nella componente fissa, sia nella componente variabile, a sua volta strettamente legata alla componente fissa (dal 15 al 50% della componente fissa, a seconda del livello di raggiungimento degli obiettivi stabiliti dal Capo dell’ufficio sulla base delle circolari del CSM).
In sede di approvazione della legge delega, la Camera dei Deputati ha approvato due raccomandazioni al Governo che determinano la componente fissa in una somma non inferiore a 36.000 Euro, la quale, aggiunta alla componente variabile (sino a 18.000 euro), costituirebbe un compenso senz’altro congruo (54.000 euro l’anno), anche considerato che gli attuali emolumenti percepiti da noi giudici di pace, che possono arrivare sino ad un massimo di 72.000 euro, sono figli di una contingenza che si è protratta, grazie al nostro costante operato sindacale, per 12 anni, ossia il blocco dei concorsi dal 2004 ad oggi e che ha determinato un ridimensionamento degli organici dalle originarie dotazioni di legge (4.700 unità ex articolo 2, l. 374/1991) agli attuali giudici in servizio, pari a circa 1.500 unità.
Anche ragionando con le attuali piante organiche (circa 3.500 unità), in conseguenza della soppressione di circa 500 sedi del Giudice di Pace, resterebbe una scopertura organica di circa 2.000 unità, la quale, nel caso di riapertura dei concorsi, scongiurata proprio in conseguenza dell’imminente approvazione della legge delega (e, diciamocelo, anche della nostra ferma opposizione, con ben 3 ricorsi giurisdizionali, dei quali due assieme all’Angdp), avrebbe comportato l’immediata riduzione dei nostri attuali emolumenti in misura non inferiore al 50% (per far capire a quei pochi colleghi ai quali sfuggivano certi meccanismi, che la riapertura dei concorsi sarebbe stata non solo definitivamente pregiudizievole per le nostre aspettative future di stabilizzazione, ma anche immediatamente lesiva dei nostri diritti patrimoniali).
Il raggiungimento, per il futuro (si rammenta che per i primi 4 anni è previsto che il sistema indennitario vigente resterà immutato – vedasi articolo 2, comma 17, lett. b), numero 5), di un compenso pari, fra quota fissa e quota variabile, a 54.000 euro lordi l’anno, costituirebbe sicuramente un risultato sindacale importante, anche alla luce della considerevole riduzione delle incompatibilità (in particolare, per noi giudici di pace sparisce l’incompatibilità con il lavoro dipendente pubblico e privato, con relativa possibilità di dedicarsi anche ad un secondo lavoro che non sia solo la professione forense extracircondariale).
Il grosso problema, inutile nascondersi, non è tanto nella volontà politica, che in teoria c’è come comprovano le raccomandazioni parlamentari approvate su parere positivo del Governo, quanto nel reperimento dei fondi necessari per la copertura finanziaria di tale spesa che, anche solo considerando i magistrati onorari attualmente in servizio (circa 5.500 unità), sarebbe pari ad 297.000.000 di euro (297 milioni, ossia il prodotto di euro 54.000 per 5.500 giudici), al quale poi andrebbe aggiunta la somma, da determinarsi sempre con gli emanandi decreti legislativi, che dovrebbe essere corrisposta ai futuri magistrati onorari di prima nomina che andranno inizialmente a svolgere le proprie funzioni, fra 4 anni, all’interno dell’Ufficio del processo.
Insomma parliamo di una somma che, approssimativamente, anche tenuto conto dei colleghi che cesseranno dalle funzioni per raggiunti limiti di età, dovrebbe arrivare intorno ai 350-400 milioni di euro, ossia oltre il triplo degli stanziamenti attualmente previsti nel nostro capitolo di bilancio (143 milioni di euro sul capitolo 1362), sul quale, peraltro, pesa anche l’ulteriore spada di Damocle della legge di stabilità 2016 che ha disposto, nei prossimi due anni, una riduzione sugli stanziamenti, già esigui, pari a circa 15 milioni di euro.
Quello finanziario sarà il grosso scoglio contro il quale dovremo scontrarci per fare in modo che fra 4 anni, allorquando la riforma entrerà a regime, sia garantito a tutti un compenso decoroso.
Abbiamo il tempo per adoperarci presso tutte le autorità politiche ed istituzionali, interne ed europee (in tal senso, un intervento della Commissione Europea sarebbe decisivo considerato che, laddove sia accertata un’infrazione, nello specifico del principio comunitario vincolante del “pro rata temporis”, per consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea nessun impedimento di bilancio può essere legittimamente frapposto), ma dovremo attivarci subito, in tutte le direzioni (Governo, Europa, azioni giudiziarie), al fine di garantirci per il futuro un compenso che sia adeguato alla funzione svolta.
E’ prevedibile che il nodo degli emolumenti, non incidendo finanziariamente sulla riforma per i primi 4 anni, verrà sciolto solo alla fine del percorso di riforma, probabilmente anche all’esito di proroghe del termine attualmente fissato dall’articolo 1, comma 1, in un anno.
3. TRATTAMENTO PREVIDENZIALE
E’, senz’altro, il secondo grosso nodo da sciogliere.
Attualmente l’articolo 2, comma 13, lettera l), impone al Governo di preservare l’invarianza finanziaria, ponendo integralmente a carico dei magistrati onorari il pagamento dei contributi previdenziali (“acquisizione delle risorse necessarie mediante misure incidenti sull’indennità”).
In materia di pubblico impiego vige la regola generale secondo la quale 3/4 dei contributi (ossia il 75%) sono posti a carico della pubblica amministrazione.
Sempre ragionando sulla base dei dati finanziari sopra considerati, tenuto conto che, approssimativamente, le contribuzioni previdenziali nel pubblico impiego ammontano ad oltre il 30% degli emolumenti (attualmente siamo al 33% in molti settori!), anche limitando gli oneri a carico dello Stato a 2/3, dovrebbe aggiungersi al “tesoretto” di 350-400 milioni di euro, un’ulteriore quota percentuale pari a circa il 20%, ossia altri 70-80 milioni di euro.
Tale somma potrebbe dimezzarsi laddove il magistrato onorario eserciti la professione di avvocato e sia iscritto alla Cassa Forense (attualmente il contributo soggettivo è pari al 14%, oltre al 4% di c.p.a.).
E’ comprensibile, in una simile situazione, che in sede di trattative con il Governo (non vincolanti nè per noi, nè per l’Europa, nè per il giudice, contando solo la legge interna, a partire dalle disposizioni costituzionali, ed il diritto comunitario, che addirittura prevale sulla legge interna) dovremo necessariamente fare una scelta e probabilmente rinunciare alla contribuzione previdenziale dello Stato, essendo l’alternativa che probabilmente ci verrà sottoposta una rinuncia a parte dei compensi (scelta, quest’ultima, ovviamente folle, perchè i contributi versati, se posti a nostro carico, sono integralmente deducibili dal reddito).
Anche in questo caso decisivo potrà essere sia l’intervento della Commissione Europea, sia l’esito delle azioni giudiziarie che andremo ad intentare (e che i nostri stessi interlocutori governativi, a partire dal Ministro Orlando e dal Sottosegretario Migliore, ci hanno espressamente suggerito di avviare).
In conclusione, la questione previdenziale dovrà essere risolta a livello comunitario o giudiziale; non ci sono altre ragionevoli alternative, e siamo praticamente già pronti per avviare i ricorsi collettivi ed individuali.
Alberto Rossi
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